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La comunità internazionale non si era mai trovata di fronte a una situazione come quella attuale, maggiore incertezza dovuta alla sciocca posizione repubblicana sulla definizione del “tetto del debito” per il governo federale degli Stati Uniti, nemmeno all’alba della seconda guerra quando le economie politiche e i governi di tutta Europa stavano crollando.
La probabilità di subire un’altra “grande recessione” con epicentro negli Stati Uniti, come quella registrata nel 2008-2009, aumenta con il passare delle ore, “1 giugno 2023 è una ‘scadenza difficile’ per alzare il limite di il debito (…) ed evitare un default senza precedenti, ha detto di recente il segretario al Tesoro Janet Yellen” (El Financiero, 23/05/23); mentre il presidente Biden cerca trucchi e argomenti contro i repubblicani disposti a tutto, anche il crollo del loro governo, pur di infliggere ai democratici un colpo che definisca una volta per tutte la competizione presidenziale dell’ex grande paese di Lincoln.
Delle sue possibili conseguenze, che non sarebbero poche, non ne usciremmo indenni, tutt’altro. Per ora, il benessere di base di milioni di americani è a rischio imminente, mentre i noti meccanismi di risoluzione delle controversie mostrano chiari segni di irrimediabile ossidazione.
Ore di angoscia vissute dagli eredi di Roosevelt e con loro dal complesso dell’Alta Finanza Internazionale, come direbbe Karl Polanyi studiando il crollo della “Grande Trasformazione” alla fine dell’Ottocento, una Bella Epoca che finì nella Grande La depressione degli anni Trenta e l’ascesa del fascismo con Hitler in testa, portarono il mondo a una competizione distruttiva di enormi proporzioni. Condizioni inimmaginabili che, possiamo ancora dire con autosufficienza sempre meno sostenibile, che la guerra è alle spalle, ma l’Ucraina è diventata tutta europea e una parte delle sue implicazioni si avverte nelle bollette deliranti che i suoi cittadini affrontano in materia energetica.
L’occupazione sembra essere in via di guarigione, ma la dimensione della “non occupazione” per i giovani europei è enorme. Il continente della “pace eterna” che Kant cercava sta affrontando sfide inedite e enormi sfide istituzionali, quando compaiono i primi germogli di una lenta ripresa.
Non siamo protetti dalle implicazioni che un fallimento degli Stati Uniti porterebbe con sé. Piaccia o no, lo accetti o lo neghi, il nostro impianto produttivo è iscritto, direttamente e indirettamente, nelle convulsioni dell’imponente economia americana; Basti pensare che, tra gennaio 1999 e giugno 2021, gli investimenti americani in Messico hanno rappresentato il 46,8 per cento degli investimenti diretti esteri accumulati per quel periodo, oltre ad essere il nostro maggior consumatore di esportazioni, con oltre l’80 per cento.
Né si può dire oggi, a tre anni dal rinnovo della firma T-MEC, che funzionerà come istanza sovranazionale, non per regolare conti commerciali ma per affrontare una circostanza complessa come quella che si profila. Se davvero proviamo a resistere a una tempesta di questa natura, abbiamo bisogno di molti investimenti e più immaginazione politica e storica.
Per ora mettiamoci d’accordo su un punto fondamentale: l’adesione alla più tradizionale o ortodossa in fatto di gestione economica e finanziaria non è la via per evitare una burrasca come quella che può venire se i repubblicani insistono nell’affondare la loro nave e all’improvviso troviamo noi stessi senza le scialuppe di salvataggio necessarie per una popolazione che non solo cresce ma aumenta con i milioni in fuga dal terrore quotidiano, dal dominio della criminalità organizzata e dalla desolazione economica e sociale.
I debiti di alcuni diventano dubbi esistenziali per tutti, in un momento in cui predominano le incertezze e le emergenze.
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